venerdì 4 dicembre 2009


E' in corso in questi giorni a Salò la Terza edizione del Fimfestival  del Garda.

La rassegna presenta ogni anno 4 Sezioni principali:
Sezione Concorso Lungometraggi, riservata ad opere prime e seconde 
Sezione Concorso Corti,  nessuna limitazione bio/filmografica
Sezione “Gardaciak”, curata dal Prof. Alberto Pesce Direttore di Filmagazine.it,  sezione che rende ogni anno omaggio ad un autore legato artisticamente o biograficamente al lago di Garda
Sezione Fuori Concorso,  dedicata a giovani autori internazionali

Da segnalare inoltre l'interessante retrospettiva su Marlene Dietrich.

Per informazioni più dettagliate rimando al seguente sito: http://www.filmfestivaldelgarda.it/index.php?dir=pagine&id=2

mercoledì 2 dicembre 2009

Brescia - Nuovo Eden. Arriva Tarantino con i "veri" Basterds.


Finalmente è arrivato!
Da Venerdì 4 a Martedì 8 Dicembre sarà possibile assistere al Nuovo Eden alla proiezione di Inglorius Basterds in versione originale. Diciamolo, nessun film andrebbe visto doppiato, per nessuna motivo. A maggior ragione non si può ricorrere ad una disonorevole traduzione per un film come l'Ultimo Tarantino che presenta 4 diverse lingue. Imperdibile.

Per ogni riferimento rimando al sito del Nuovo Eden: http://www.nuovoeden.it/

martedì 1 dicembre 2009

Collebeato (Brescia) - Incontro con il vincitore del 66° Leone d'Oro




Venerdì 4 dicembre 2009 nella Sala S.Filippo Neri a Collebeato la scrittrice-giornalista Manuela Dviri incontra il regista Shmulik Maoz vincitore a Venezia del Leone d’Oro alla “66 Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica”.

ore 18:45  Proiezione del film “Lebanon”
ore 20:30 Incontro pubblico ad ingresso libero con presenza sala del regista Shmulik (Samuel) Maoz e della scrittrice Manuela Dviri.
ore 22:00 proiezione del film “Lebanon”

Per motivi organizzativi è necessario prenotare la propria presenza con invio e-mail a info@serviziculturali.it oppure telefonando a 339.8441123.

Il biglietto intero del film “Lebanon” costa € 5,00, per i minori di 13 anni e per i soci del Centro Culturale 999 il costo è di € 3,00.

Fonte: http://www.collebeato.org/WP/?p=259

sabato 28 novembre 2009

Il Nastro Bianco - Michael Haneke



Il Nastro Bianco è un film che prende forma dalle sue interne contrapposizioni. La più visibile, palpabile, è di natura cromatica, un forte contrasto tra bianco e nero che sta a indicare una precisa scelta stilistica fondata su un retroterra culturale ben definito. Il Bianco è il colore positivo per eccellenza, quello della purezza e del candore, una tonalità così solenne da permettere di mantenere un rigoroso distacco dalla narrazione. Il (bianco) nastro di cui il titolo del film riporta il nome è un simbolo di questa tradizione culturale che serve a caratterizzare i bambini del villaggio tedesco come esseri puri, immacolati e incapaci di qualsiasi forma di deviazione morale, o almeno questa è la speranza dei rigorosi genitori. Haneke riserva a questa Germania rurale primo novecentesca una decolorazione asettica, raggelante, donando alla narrazione un senso ieratico e immutabile che nemmeno lo scorrere del tempo sembra poter alterare. Siamo di fronte ad un film esteticamente perfetto ma sobrio, severo ma poco partecipato – al contrario di quanto avveniva invece in Funny Games o in Niente da Nascondere - nel quale facciamo fatica a penetrare ed entrare fino in fondo nella vicenda. 
Un’altra contrapposizione, meno formale ma più sostanziale, è quella che ricorre tra l’interno e l’esterno del villaggio, tra il dentro e il fuori rispetto al nucleo familiare. L’esterno è il luogo dell’istinto e dell’aggressione, della vendetta e dell’orrore, dove l’uomo agisce come individuo; l’interno al contrario è lo spazio (apparentemente) sicuro, dove si trova rifugio attraverso rigore maniacale e gerarchie patriarcali. E’ all’esterno che succedono nel giro di un anno quegli strani incidenti che spaventano il paese: qualcuno ha tirato un filo tra due alberi per far cadere il dottore che tornava a cavallo; due dei bambini, il figlio del barone e quello ritardato della levatrice subiscono a distanza l'uno dall'altro due incomprensibili ritorsioni; il granaio va a fuoco. Ma chi sono i responsabili? Cosa è successo veramente? Tutto alla fine perde consistenza e si smarrisce nel silenzio (anche la musica non a caso è totalmente assente). Unica nota dissonante è l’insegnante forestiero (voce narrante ormai anziana che ci accompagna in tutto il film), che osserva e cerca di capire cosa sta succedendo (e si innamora! L’unico che ne è ancora capace). Gli altri sono intenti a proteggere un’illusoria solidità che si sta lentamente sgretolando, una realtà fatta di sadici castighi, punizioni e ferrea disciplina che forma la spina dorsale di questo ambiente puritano. Il villaggio va visto in tutta la sua staticità, è difficile andarsene (la morte è una possibile soluzione), non è un luogo di arrivi e partenze, ma è un microcosmo a sé stante, immerso in un contesto sempre più angosciante: la grande guerra è alle porte (a un certo punto si festeggia “l’ultimo capodanno di pace). E i bambini troveranno l’unico modo di farsi sentire: un’insensata violenza, unica forma di espressione, la più naturale, lasciata a dei fanciulli schiacciati dal rigore. Gli esempi che hanno davanti agli occhi sono i personaggi del Medico, del Pastore e del Barone, tre modi di esercitare l'autorità e il sopruso che forniscono un unico modello possibile (e deprecabile) di comportamento.
I germi del male sono stati piantati. Da lì a vent’anni l’uomo con i baffi passerà a raccogliere il raccolto: un popolo assetato di vendetta e con l’abitudine a seguire giocoforza gli ordini che sarà perfetto seguace della follia totalitaria. La responsabilità, d’altra parte, sta nei semi di disciplina, castrazione e violenza lasciati dai padri: il futuro non può essere che nero. E dando una visione trasversale alla filmografia di Haneke capiamo che la storia non lascia scampo ad alcuna speranza. La lezione delle due guerre mondiali non è servita, il tempo dei lupi novecentesco non ha ancora finito il suo ciclo. E’ ancora ben visibile l‘iperindividualismo dell’uomo; non c’è “niente da nascondere, nemmeno quel senso di colpa universale di cui esso si è macchiato e che non può essere superato attraverso una qualsiasi interpretazione (e revisione) particolaristica. Il nastro bianco che il Pastore impone ai figli più grandi doveva simboleggiare la necessità di raggiungere una purezza che andava coincidere con l'acquisita maturità; in realtà è un’effige, il primo elemento di un uniforme che dei fanciulli cresciuti indosseranno nel giro di qualche anno e che perderà ben presto il suo “candore” macchiata da un colore rosso magenta.



venerdì 27 novembre 2009

Portraits: Gus Van Sant



Per i primi anni della sua carriera Van Sant è considerato un'icona del cinema indie. Già nel lungometraggio d'esordio, Mala Noche (1985), troviamo quei protagonsti ribelli e disadattati che popoleranno anche le sue pellicole successive. Così come i giovani tossici di Drugstore Cowboy (1989) vivono ai margini della società, i marchettari di Belli e dannati (1991) abitano in una condizione privata, intima, personale. Quello che vediamo risulta spesso essere un viaggio delle idee, un flusso discontinuo e di natura illusoria che sposta lo spettatore dalla sua indiscussa centralità. Dopo essere entrato in punta di piedi nel mondo delle Major con Da morire (1995), viene offerta a Van Sant la possibilità di girare l'ambizioso Will Hunting (1997), film che ne decreta a pieno titolo la credibilità commerciale. Grazie a questo successo il regista può lanciarsi in un ardito progetto, il rifacimento di Psycho (1998), non un remake ma un vero clone del classico hitchcockiano. Con Scoprendo Forrester (2000) infine si inizia a credere che il suo lavoro sia ormai inglobato all'interno del sistema normativo Hollywoodiano. Van Sant però non finisce di stupire e con Gerry (2002) inaugura una stagione di ardito sperimentalismo, una netta svolta che porta ad asciugare l'impianto narrativo, riducendo i dialoghi al grado zero verso una totale antitesi del racconto. Nel 2003 con Elephant tocca il punto più alto di questa nuova fase di assoluta libertà creativa arrivando a vincere la Palma d'oro a Cannes. La strada del cinema della durata verrà ripresa anche nell'estremo Last Days (2005), un film fatto di silenzi, parole vuote e azioni parallele montate in successione, tutte caratteristiche che ritroveremo anche nel successivo Paranoid Park (2007). Ma questa svolta radicale a quanto pare non è stata definitiva. Con Milk (2008) l'impianto narrativo torna a scorrere in modo lineare. Van Sant rinuncia al disordine mentale proponendo un film dal sapore convenzionale e apprezzabile anche da un pubblico di massa.

venerdì 20 novembre 2009

Donne-moi la main - Pascal-Alex Vincent



Antoine e Quentin, gemelli omozigoti francesi, decidono di mettersi in cammino verso la Spagna per partecipare al funerale della madre mai conosciuta. Sarà un viaggio intimo e fisico, un vero e proprio cammino iniziatico, cadenzato da incontri passeggeri e fugaci esperienze sessuali. Un susseguirsi di scontri, separazioni e riavvicinamenti attraverso i quali conoscersi progressivamente, scovando sé stessi nel proprio doppio. Emergerà poco a poco tutta la diversità che contraddistingue i due fratelli, in un rapporto di amore e odio fatto di sostegno reciproco e tensioni latenti che finirà inevitabilmente per esplodere. Pascal-Alex Vincent, al suo primo lungometraggio, porta sullo schermo un road-movie silenzioso, non spettacolare, nel quale l’incessante susseguirsi di atmosfere e situazioni entra in contrasto con l’evolversi della narrazione. L'iniziale sequenza di animazione, oltre a mostrarci il principio di questo lungo viaggio (che proseguirà a piedi, in autostop, su treni merci), sembra voler prendere le distanze da un modo di procedere realistico ed esplicativo. La delicata alchimia con lo spettatore però non riesce, arenandosi su un'inespressività che ci rende distaccati rispetto ad un'incessante ricerca di sé stessi, del proprio “io”, portata avanti dai due protagonisti. Il lavoro di Vincent appare ancora troppo acerbo, incapace di districarsi con naturalezza tra la libertà e le insidie di un lungometraggio. Il risultato finale è quello di un collage di eventi troppo slegati tra di loro, una rassegna di emozioni che, esaurendo l’intensità all’interno dei singoli confini, rende sbiadita l’integrità filmica nel suo complesso.



martedì 10 novembre 2009

Confronti: Io la conoscevo bene Vs. Videocracy


Quando un film del 1965 risulta più attuale dei suoi odierni “figliocci”.

Antonio Pietrangeli è un regista italiano tanto bravo quanto dimenticato. A metà anni 60 porta a compimento il suo film più celebre, “Io la conoscevo bene”, feroce ritratto di un’Italietta contemporanea cinica e crudele, con le allegre musichette del tempo e le Fiat 500 (quelle “vere”, meno fashion e più proletarie) che imperversano ovunque. La giovane protagonista, interpretata da una bella e sorprendente Stefania Sandrelli, è un’aspirante attrice che parte dalla provincia per tentare il successo nella capitale, disposta a tutto pur di raggiungere il suo sogno. Ma a Roma non riceve altro che una serie di umiliazioni, batoste e disillusioni che mettono in luce una resistenza fatta di incoscienza e disarmante passività. La ragazza, agli occhi dei millantatori e dei volgari seduttori che le gravitano attorno, viene considerata non più che una scemetta e una puttanella qualsiasi, disponibile come un oggetto da prendere e buttare senza troppi scrupoli. Tutto le sembra scivolare addosso senza eccessive preoccupazioni ma le continue delusioni, somministrate poco a poco come un veleno, la condurranno ad un tragico e impietoso finale. Nelle ambizioni di Adriana, sprovveduta ma non incolpevole vittima di una società che tanto la attrae, possiamo trovare le radici della deriva morale e valoriale verso la quale sta proseguendo la nostra società. Pietrageli solleva il sottobosco della dolce vita anni ’60 e ci fa vedere il suo lato più oscuro, un amaro spaccato che ben si riflette sulla realtà che oggi ci circonda e che fa impallidire, in quanto profondità di analisi, pellicole attuali ben più ambiziose. Un esempio su tutti: Videocracy, documentario italo-svedese venuto alla ribalta nei primi giorni della Mostra del Cinema di Venezia che si pone come obiettivo quello di scavare nella società dello spettacolo italiana. Ciò che ne esce è una narrazione sommaria e superficiale della cultura dell'apparenza e dell'apparire che ha caratterizzato l'Italia berlusconiana, un’indagine molto più vicina a una puntata di Lucignolo che a un’inchiesta degna di nota.  L’impudicizia di Corona e l’orgoglio antisemita di Lele Mora, moderno venditore d’illusioni, sovrastano ogni velleità di analisi impoverendo il discorso narrativo. Voyeuristico, e superficiale al punto giusto per avere un suo fugace successo, Videocracy  trova nel rifiuto di Rai e Mediaset di trasmettere il suo trailer un ottimo motivo per emergere alla ribalta mediatica. Il documentario stesso diviene conferma implicita e involontaria del suo discorso: il potere della televisione conferisce visibilità ai soggetti che appaiono (o vengono esclusi) sui teleschermi. Se nel film di Pietrangeli eravamo di fronte ad un modo di argomentare chiaro, capace di travalicare i confini del tempo, non possiamo purtroppo dire altrettanto del lavoro di Gandini. La realtà che porta sullo schermo appare filtrata, imbrigliato all’interno di limiti e confini tipici del modo di comunicare televisivo verso i quali il cinema dovrebbe mantenere sempre una sua nobilitante autonomia.  

venerdì 30 ottobre 2009

The Informant! - Steven Soderbergh



Mark Whitacre è un manager di successo per un’azienda di derivati agricoli del Midwest a stelle e strisce. Sembra completamente a suo agio in un sistema che lo ingloba, chiaro esempio di un opaco benessere di quella “middle upper class” che pensa solo ai soldi: una bella casa, una moglie affettuosa, tre figli (di cui due adottati), una scuderia personale con otto macchine di lusso. Ma il seme dell’arrivismo esasperato lo porta a destabilizzare questo cinico equilibrio indirizzato al solo all’interesse economico. Inizia così a collaborare con l’FBI (agente 0014, si autoproclamerà, perché lui è 2 volte più furbo di 007) convinto che, denunciando gli illeciti riguardanti la gestione illegale dei prezzi dell’industria agroalimentare,  riuscirà a scalare la piramide aziendale fino al suo vertice.  Pur di arrivare al successo personale Whitacre perde il senso della realtà lasciandosi trasportare in un mare magnum di frottole e simulazioni, un’escalation di bugie e invenzioni che porta gradualmente a far vacillare la credibilità di questa “gola profonda”. 
The Informant! è una commedia dark che prende spunto dal libro di Kurt Eichenwald, giornalista del New York Times specializzato in scandali finanziari. Soderbergh porta sullo schermo un lavoro meno personale rispetto al biopic in due parti “Che” che però ha il merito di ridicolizzare alcuni limiti della società americana (e non solo..) dove è sempre più difficile distinguere tra verità e bugie, tra apparenza e sostanza, tra identità e mistificazione. Purtroppo capiamo ben presto l’inaffidabilità di Whitacre, mentitore incallito indecifrabile per tutti - anche per se stesso - interpretato da un ottimo Matt Damon ingrassato per l’occasione di quindici chili.  Gli farà da contraltare l’agente dell’FBI Brian Shepard, persona sincera e determinata che, nonostante le cocenti e reiterate delusioni, si prende a cuore l’uomo e continua a credergli. Lasciando da parte ogni tipo di analisi articolata la narrazione si stabilizza decisa su un registro comico (rimarcato dalla colonna sonora di Marvin Hamlisch) che sembra banalizzare le potenzialità creative della vicenda. Lo scenario di spionaggio industriale rimane sullo sfondo spostando il focus sul castello di menzogne che poco a poco si viene a creare, una realtà soggettiva che ingloba in se stessa anche tutta una serie di oggettività frammentate. A strapparci qualche sorriso ci pensano le digressioni mentali del protagonista, monologhi interiori che evidenziano impietosamente una contraddizione tra ciò che egli pensa e ciò che fa, un’altalena tra verità e finzione che lascia però a poco a poco indifferenti.

domenica 25 ottobre 2009

L'Onda - Dennis Gansel




Lunedì mattina. Inizia una nuova settimana all'interno di un liceo bavarese. Non si tratta però della solita settimana fatta di spiegazioni alla lavagna e interrogazioni, ma di un'occasione particolare nella quale sviluppare una specifica tematica: l'autocrazia. Il corso viene tenuto controvoglia dal professor Reiner Wenger, look anticonformista (con tanto di t-shirt dei Ramones) e un passato da anarchico vissuto “sul campo” nelle case occupate a Berlino. Sfruttando il suo carisma e utilizzando metodi estranei alle comuni dinamiche scolastiche, l'insegnante riuscirà ad affrontare una problematica verso la quale le nuove generazioni si considerano impermeabili. Le atrocità del nazismo vengon ormai viste dai giovani tedeschi come storia passata, una realtà lontana, considerata impossibile da ripetersi. Attraverso uno sbrigativo e inevitabile schematismo narrativo si arriverà, nel giro di pochi giorni, alla nascita di un microsistema totalitario, un blocco sociale compatto, fatto di disciplina e obbedienza. Come in ogni Regime che si rispetti ci si troverà di fronte a una contraffazione verticale della realtà che non lascia nulla al caso, con tanto di führer (il professore Reiner), riti e simboli identitari (marce, uniformi, adunate e un simbolo), un nome (l'Onda) e anche un nemico, identificato nel “diverso”, colui che non partecipa e necessita di essere inglobato. Questa forma di fanatismo nata tra i banchi di scuola si propagherà ben presto nella vita reale degli alunni, portando ad atti vandalici che imbrattano i muri delle città e sfociando infine in un inevitabile scoppio di disperata violenza. Rifacendosi direttamente ad un esperimento del 1967 svolto a Palo Alto in California, il regista Dennis Gansel porta sullo schermo una prevedibile parabola con tanto di finale tragico. Il docente di storia Ron Jones decise di spiegare ai suoi studenti che cosa fosse il totalitarismo istituendo un regime di ferrea disciplina, cercando così di mostrare come era stato possibile che un'intera nazione avesse obbedito in maniera incondizionata a Hitler. Il risultato è riconducibile a quell'esplosione di fanatismo che troviamo nel finale del film e che però, ricollocata all'interno di una Germania post muro di Berlino, assume richiami ancor più inquietanti. In questa situazione sono i più fragili a subire le maggiori conseguenze, come l'insicuro Tim, ragazzo senza senso di appartenenza e precisi punti di riferimento, che domina le proprie paure identificandosi sempre di più nel “movimento”, fino a diventarne oltre che vittima anche carnefice. Gansel sembra rifarsi in parte alla lezione di Hannah Arendt, soffermandosi sulla logica intrinseca ai regimi totalitari. Il male non è pensato come principio avverso al bene, vien privato della sostanza metafisica, demoniaca, per esser letto nella sua oggettività e contingenza. Da sinonimo di trasgressione a semplice conformismo. La spina dorsale del totalitarismo non è costituita da deviati ma da uomini (e ragazzi) qualunque e per i quali diventa naturale conformarsi (anche le due ragazze fuori dal coro sembrano contestare più per “ruolo” che per una profonda convinzione). L'agire dell'Onda diviene pura assenza di ragione, muovendosi senza coscienza e pensiero critico e omettendo ogni forma di giudizio personale. Il tutto in nome di un'Idea vuota che diventa una sorta di ragion pratica kantiana, principio universale da seguire, da portare avanti spazzando via ogni tipo di intralcio. Il film ha sicuramente il merito di evitare qualsiasi tipo di giustificazione causalistica e finalistica ad un processo degenerativo destinato ad un'esponenziale coerenza. Ciò che non convince è l'eccessivo pedagogismo didascalico che toglie incisività ad un contenuto eccessivamente razionalizzato. Quello che viene a crearsi è un distacco attraverso il quale si fatica a tenere vivo il senso di indignazione, perdendo così l'occasione di scuotere gli animi delle generazioni future.

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