sabato 28 novembre 2009

Il Nastro Bianco - Michael Haneke



Il Nastro Bianco è un film che prende forma dalle sue interne contrapposizioni. La più visibile, palpabile, è di natura cromatica, un forte contrasto tra bianco e nero che sta a indicare una precisa scelta stilistica fondata su un retroterra culturale ben definito. Il Bianco è il colore positivo per eccellenza, quello della purezza e del candore, una tonalità così solenne da permettere di mantenere un rigoroso distacco dalla narrazione. Il (bianco) nastro di cui il titolo del film riporta il nome è un simbolo di questa tradizione culturale che serve a caratterizzare i bambini del villaggio tedesco come esseri puri, immacolati e incapaci di qualsiasi forma di deviazione morale, o almeno questa è la speranza dei rigorosi genitori. Haneke riserva a questa Germania rurale primo novecentesca una decolorazione asettica, raggelante, donando alla narrazione un senso ieratico e immutabile che nemmeno lo scorrere del tempo sembra poter alterare. Siamo di fronte ad un film esteticamente perfetto ma sobrio, severo ma poco partecipato – al contrario di quanto avveniva invece in Funny Games o in Niente da Nascondere - nel quale facciamo fatica a penetrare ed entrare fino in fondo nella vicenda. 
Un’altra contrapposizione, meno formale ma più sostanziale, è quella che ricorre tra l’interno e l’esterno del villaggio, tra il dentro e il fuori rispetto al nucleo familiare. L’esterno è il luogo dell’istinto e dell’aggressione, della vendetta e dell’orrore, dove l’uomo agisce come individuo; l’interno al contrario è lo spazio (apparentemente) sicuro, dove si trova rifugio attraverso rigore maniacale e gerarchie patriarcali. E’ all’esterno che succedono nel giro di un anno quegli strani incidenti che spaventano il paese: qualcuno ha tirato un filo tra due alberi per far cadere il dottore che tornava a cavallo; due dei bambini, il figlio del barone e quello ritardato della levatrice subiscono a distanza l'uno dall'altro due incomprensibili ritorsioni; il granaio va a fuoco. Ma chi sono i responsabili? Cosa è successo veramente? Tutto alla fine perde consistenza e si smarrisce nel silenzio (anche la musica non a caso è totalmente assente). Unica nota dissonante è l’insegnante forestiero (voce narrante ormai anziana che ci accompagna in tutto il film), che osserva e cerca di capire cosa sta succedendo (e si innamora! L’unico che ne è ancora capace). Gli altri sono intenti a proteggere un’illusoria solidità che si sta lentamente sgretolando, una realtà fatta di sadici castighi, punizioni e ferrea disciplina che forma la spina dorsale di questo ambiente puritano. Il villaggio va visto in tutta la sua staticità, è difficile andarsene (la morte è una possibile soluzione), non è un luogo di arrivi e partenze, ma è un microcosmo a sé stante, immerso in un contesto sempre più angosciante: la grande guerra è alle porte (a un certo punto si festeggia “l’ultimo capodanno di pace). E i bambini troveranno l’unico modo di farsi sentire: un’insensata violenza, unica forma di espressione, la più naturale, lasciata a dei fanciulli schiacciati dal rigore. Gli esempi che hanno davanti agli occhi sono i personaggi del Medico, del Pastore e del Barone, tre modi di esercitare l'autorità e il sopruso che forniscono un unico modello possibile (e deprecabile) di comportamento.
I germi del male sono stati piantati. Da lì a vent’anni l’uomo con i baffi passerà a raccogliere il raccolto: un popolo assetato di vendetta e con l’abitudine a seguire giocoforza gli ordini che sarà perfetto seguace della follia totalitaria. La responsabilità, d’altra parte, sta nei semi di disciplina, castrazione e violenza lasciati dai padri: il futuro non può essere che nero. E dando una visione trasversale alla filmografia di Haneke capiamo che la storia non lascia scampo ad alcuna speranza. La lezione delle due guerre mondiali non è servita, il tempo dei lupi novecentesco non ha ancora finito il suo ciclo. E’ ancora ben visibile l‘iperindividualismo dell’uomo; non c’è “niente da nascondere, nemmeno quel senso di colpa universale di cui esso si è macchiato e che non può essere superato attraverso una qualsiasi interpretazione (e revisione) particolaristica. Il nastro bianco che il Pastore impone ai figli più grandi doveva simboleggiare la necessità di raggiungere una purezza che andava coincidere con l'acquisita maturità; in realtà è un’effige, il primo elemento di un uniforme che dei fanciulli cresciuti indosseranno nel giro di qualche anno e che perderà ben presto il suo “candore” macchiata da un colore rosso magenta.



venerdì 27 novembre 2009

Portraits: Gus Van Sant



Per i primi anni della sua carriera Van Sant è considerato un'icona del cinema indie. Già nel lungometraggio d'esordio, Mala Noche (1985), troviamo quei protagonsti ribelli e disadattati che popoleranno anche le sue pellicole successive. Così come i giovani tossici di Drugstore Cowboy (1989) vivono ai margini della società, i marchettari di Belli e dannati (1991) abitano in una condizione privata, intima, personale. Quello che vediamo risulta spesso essere un viaggio delle idee, un flusso discontinuo e di natura illusoria che sposta lo spettatore dalla sua indiscussa centralità. Dopo essere entrato in punta di piedi nel mondo delle Major con Da morire (1995), viene offerta a Van Sant la possibilità di girare l'ambizioso Will Hunting (1997), film che ne decreta a pieno titolo la credibilità commerciale. Grazie a questo successo il regista può lanciarsi in un ardito progetto, il rifacimento di Psycho (1998), non un remake ma un vero clone del classico hitchcockiano. Con Scoprendo Forrester (2000) infine si inizia a credere che il suo lavoro sia ormai inglobato all'interno del sistema normativo Hollywoodiano. Van Sant però non finisce di stupire e con Gerry (2002) inaugura una stagione di ardito sperimentalismo, una netta svolta che porta ad asciugare l'impianto narrativo, riducendo i dialoghi al grado zero verso una totale antitesi del racconto. Nel 2003 con Elephant tocca il punto più alto di questa nuova fase di assoluta libertà creativa arrivando a vincere la Palma d'oro a Cannes. La strada del cinema della durata verrà ripresa anche nell'estremo Last Days (2005), un film fatto di silenzi, parole vuote e azioni parallele montate in successione, tutte caratteristiche che ritroveremo anche nel successivo Paranoid Park (2007). Ma questa svolta radicale a quanto pare non è stata definitiva. Con Milk (2008) l'impianto narrativo torna a scorrere in modo lineare. Van Sant rinuncia al disordine mentale proponendo un film dal sapore convenzionale e apprezzabile anche da un pubblico di massa.

venerdì 20 novembre 2009

Donne-moi la main - Pascal-Alex Vincent



Antoine e Quentin, gemelli omozigoti francesi, decidono di mettersi in cammino verso la Spagna per partecipare al funerale della madre mai conosciuta. Sarà un viaggio intimo e fisico, un vero e proprio cammino iniziatico, cadenzato da incontri passeggeri e fugaci esperienze sessuali. Un susseguirsi di scontri, separazioni e riavvicinamenti attraverso i quali conoscersi progressivamente, scovando sé stessi nel proprio doppio. Emergerà poco a poco tutta la diversità che contraddistingue i due fratelli, in un rapporto di amore e odio fatto di sostegno reciproco e tensioni latenti che finirà inevitabilmente per esplodere. Pascal-Alex Vincent, al suo primo lungometraggio, porta sullo schermo un road-movie silenzioso, non spettacolare, nel quale l’incessante susseguirsi di atmosfere e situazioni entra in contrasto con l’evolversi della narrazione. L'iniziale sequenza di animazione, oltre a mostrarci il principio di questo lungo viaggio (che proseguirà a piedi, in autostop, su treni merci), sembra voler prendere le distanze da un modo di procedere realistico ed esplicativo. La delicata alchimia con lo spettatore però non riesce, arenandosi su un'inespressività che ci rende distaccati rispetto ad un'incessante ricerca di sé stessi, del proprio “io”, portata avanti dai due protagonisti. Il lavoro di Vincent appare ancora troppo acerbo, incapace di districarsi con naturalezza tra la libertà e le insidie di un lungometraggio. Il risultato finale è quello di un collage di eventi troppo slegati tra di loro, una rassegna di emozioni che, esaurendo l’intensità all’interno dei singoli confini, rende sbiadita l’integrità filmica nel suo complesso.



martedì 10 novembre 2009

Confronti: Io la conoscevo bene Vs. Videocracy


Quando un film del 1965 risulta più attuale dei suoi odierni “figliocci”.

Antonio Pietrangeli è un regista italiano tanto bravo quanto dimenticato. A metà anni 60 porta a compimento il suo film più celebre, “Io la conoscevo bene”, feroce ritratto di un’Italietta contemporanea cinica e crudele, con le allegre musichette del tempo e le Fiat 500 (quelle “vere”, meno fashion e più proletarie) che imperversano ovunque. La giovane protagonista, interpretata da una bella e sorprendente Stefania Sandrelli, è un’aspirante attrice che parte dalla provincia per tentare il successo nella capitale, disposta a tutto pur di raggiungere il suo sogno. Ma a Roma non riceve altro che una serie di umiliazioni, batoste e disillusioni che mettono in luce una resistenza fatta di incoscienza e disarmante passività. La ragazza, agli occhi dei millantatori e dei volgari seduttori che le gravitano attorno, viene considerata non più che una scemetta e una puttanella qualsiasi, disponibile come un oggetto da prendere e buttare senza troppi scrupoli. Tutto le sembra scivolare addosso senza eccessive preoccupazioni ma le continue delusioni, somministrate poco a poco come un veleno, la condurranno ad un tragico e impietoso finale. Nelle ambizioni di Adriana, sprovveduta ma non incolpevole vittima di una società che tanto la attrae, possiamo trovare le radici della deriva morale e valoriale verso la quale sta proseguendo la nostra società. Pietrageli solleva il sottobosco della dolce vita anni ’60 e ci fa vedere il suo lato più oscuro, un amaro spaccato che ben si riflette sulla realtà che oggi ci circonda e che fa impallidire, in quanto profondità di analisi, pellicole attuali ben più ambiziose. Un esempio su tutti: Videocracy, documentario italo-svedese venuto alla ribalta nei primi giorni della Mostra del Cinema di Venezia che si pone come obiettivo quello di scavare nella società dello spettacolo italiana. Ciò che ne esce è una narrazione sommaria e superficiale della cultura dell'apparenza e dell'apparire che ha caratterizzato l'Italia berlusconiana, un’indagine molto più vicina a una puntata di Lucignolo che a un’inchiesta degna di nota.  L’impudicizia di Corona e l’orgoglio antisemita di Lele Mora, moderno venditore d’illusioni, sovrastano ogni velleità di analisi impoverendo il discorso narrativo. Voyeuristico, e superficiale al punto giusto per avere un suo fugace successo, Videocracy  trova nel rifiuto di Rai e Mediaset di trasmettere il suo trailer un ottimo motivo per emergere alla ribalta mediatica. Il documentario stesso diviene conferma implicita e involontaria del suo discorso: il potere della televisione conferisce visibilità ai soggetti che appaiono (o vengono esclusi) sui teleschermi. Se nel film di Pietrangeli eravamo di fronte ad un modo di argomentare chiaro, capace di travalicare i confini del tempo, non possiamo purtroppo dire altrettanto del lavoro di Gandini. La realtà che porta sullo schermo appare filtrata, imbrigliato all’interno di limiti e confini tipici del modo di comunicare televisivo verso i quali il cinema dovrebbe mantenere sempre una sua nobilitante autonomia.  

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